Conobbi Osvaldo dopo essere entrato al Cottolengo 52 anni fa.
Quel rapporto consentì di raccontare il senso stoico della vita di Osvaldo, rivelandosi inoltre fondamentale per intraprendere l’attività di sostegno al Cottolengo.
Egli apparteneva alla categoria degli invalidi che incappano nella completa dipendenza dalla famiglia così, al Cottolengo giunse appena la sua disabilità, causata dalla poliomielite, non fu più in grado di essere gestita dai famigliari.
Osvaldo era cresciuto quindi in un contesto particolare, portandosi appresso per sua natura psicologica e per ragioni organizzative di vita pratica, i condizionamenti, le sevizie, ma anche le grazie, l’ingenuità che la sua natura aveva poco per volta somatizzato.
Sdraiato su di una carrozzina appositamente costruita per contenere dimensioni fuori norma, si era assuefatto al tormento derivato dall’immobilità, usufruendo solamente di una contenuta mobilità del viso e naturalmente della parola.
I suoi occhi miopi non erano mai portatori di tristezze, ma trasparivano da due spesse lenti depositari di una dolce espressione pervasa a volte da vaga malinconia.
Quegli occhi si animavano ogni tanto d’una luce curiosa che, sostenuta da ingenue partecipazioni verbali, finiva per materializzarsi in simpatici sorrisi
La sua lingua gestita naturalmente per la conversazione aveva però un’altra importantissima funzione, veniva infatti adoprata come leva per sfogliare le pagine dei libri.
A debita distanza dunque, tramite il fermo di una piccola struttura ancorata alla carrozzina, si poteva bloccare un libro da esaminare consentendo alla sua lingua di appiccicarsi alle pagine Attraverso una breve traslazione da destra verso sinistra o viceversa, Osvaldo poi, completava l’unica e commovente opportunità fisica a disposizione.
Sempre amorevolmente assistito dalla sua famiglia e da quella Cottolenghina, riuscì subito ad accaparrarsi l’attenzione e poi anche il mio affetto.
Col tempo quel rapporto permise delle importanti esperienze che sottilmente mi portarono a frugare nei misteri della vita così da evidenziare inevitabilmente i privilegi della mia esistenza, legata ai disturbi che mi appartenevano, sostanzialmente giudicabili come espressione dell’ego coadiuvate da sbadate consapevolezze.
Ricordo lunghe passeggiate nei dintorni del Cottolengo concesse dalla superiora del reparto.
Ricordo come sulla vistosa carrozzina a quattro ruote Osvaldo, nel muovere come un “periscopio” il viso, manifestasse una gioia intensa immensamente gratificante anche per il sottoscritto.
Nella grazia di quel rapporto amichevole, poco per volta come spesso avviene, ancora mi è gradito ricordare l’instaurazione di un goliardico atteggiamento.
Sul petto voluminoso, strumentale tamburo, tramite equilibrate percussioni, mi era consentito un ritmico movimento manuale dal quale uscivano rimbombi intervallati da gorgoglianti, irrefrenabili risate che sincopavo con canti improvvisati.
La complessa vitalità di quell’amicizia in quell’inusuale isola di serenità spesso sconcertava la comunità e occasionali visitatori.
Osvaldo da lungo tempo era martoriato da una devastante calcolosi renale che sempre più cruenta aggiungeva ai suoi disagi altra impensabile sofferenza.
Attraverso quel calvario, Osvaldo giunse così alla fine dei suoi giorni incappando nell’ultima delle sue terribili coliche.
Al compimento d’una setticemia entrò in coma e li rimase per una settimana.
Quando ormai tutti non si aspettavano altro che la sua dipartita, improvvisamente si destò e lucidissimamente raccontò un incredibile fatto.
Raccontò di essere stato dall’altra parte, in quel mondo invisibile di cui si parla misteriosamente per dare senso all’esistenza confermando una certezza che non la ragione, ma solo la fede può dare.
Luogo che descrisse come straordinariamente bello e dal quale era tornato non solo per poterci salutare, ma soprattutto, per consentire il riscatto d’un’esistenza vissuta nell’apparente accanita inutilità del male. Una trasfigurazione che sembrerebbe estratta dall’astratta concretezza della speranza, quella che i credenti a volte possono anticipare in quell’inverosimile modo.
Osvaldo rientrò nel coma e così dopo due giorni concluse la sua esistenza attraverso quel lucido messaggio.
Portentosa, aneddotica, non che terapeutica, riportai sovente quella “storia” ad amici, parenti, conoscenti, ritenendola particolarmente significativa così da essere estrapolata come riferimento da rivivere e da abbinare ai momenti, gli ultimi, convenuti da tutti come i “più difficili e importanti“ della vita.
Confermando questa considerazione, una telefonata molto tempo dopo, riaprì inaspettatamente il capitolo dell’amico Osvaldo.
Era la moglie di un ex collega che disperata mi informava della gravissima situazione in cui versava suo marito.
Sapevo di una grave malattia all’ipofisi che molti anni prima era stata risolta attraverso un complicato intervento chirurgico.
Quella malattia si era purtroppo manifestata nuovamente e Gino, ricordandosi di me, aveva chiesto di potermi rivedere.
Andai a trovarlo constatando la condizione di un male che ormai era giunto alla sua conclusione.
Successivamente, messomi a disposizione per l’assistenza notturna, nel coadiuvare la moglie ormai al limite delle sue forze, l’amico mi rammentò la vecchia storia di Osvaldo, raccontata nelle pause confidenziali del lavoro, pregando di esporla ancora una volta.
Capii quanto quel racconto fosse stato fermato nella memoria di Gino e posto come riferimento indelebile nel suo cuore.
Illuminandosi riascoltò così quel racconto, tenendo stretta la mano di sua moglie.
Cercando ancora di rappresentare e convertire in speranza quello che Osvaldo aveva regalato a molti attraverso la sua testimonianza, l’approccio con quel primo intervento notturno fu straordinariamente circoscritto da uno stato di serena vitalità.
Pareva procedessimo nelle disquisizioni come in un qualsiasi intervallo ricreativo del passato.
Quando la moglie si appartò, avendo terminato le procedure di assistenza necessarie, ripercorremmo ancora le esperienze del nostro cammino lavorativo spiritualmente lontani dalla situazione di precarietà in cui ci trovavamo, per rivivere quasi materialmente nei luoghi della memoria.
A notte inoltrata decidemmo di comune accordo, accompagnati da un allegria inusuale, eccessiva, di frenare i nostri impulsi riesumativi per incominciare a pensare invece al riposo.
Lasciai l’amico il mattino, dopo le medicazioni, stabilendo i futuri contatti di assistenza, ma la sera del giorno dopo, la moglie mi avvertì che Gino aveva chiuso gli occhi serenamente, per sempre.
Osvaldo e Gino, due vite sofferenti accomunate nella speranza.
Due vite che si affiancheranno sicuramente nel mio pensiero quando anch’io dovrò chiudere il libro della mia esistenza. Torino. 14.3.2011
Pierangelo Devecchi.